DIVERTIRSI COME CURA

Perché divertirsi è diventato faticoso (ma vitale)

DI.VER.TI.TI.

Perché nessun guru della crescita interiore lo dice mai in quei video che promettono miracoli su Youtube?

Una laurea triennale in psicologia non fa di me una psicologa; e scrivere nell’area della crescita personale da 6 anni non fa di me una coach.

Qualcosa però l’ho imparata.

E da donna in quell’età che si definisce adulta, posso dire che c’è una gran carenza di divertimento.

Quante volte ridi in una giornata?

E quante ridi a crepapelle?

E quante volte in un giorno ti prendi la libertà di fare qualcosa che ti appassiona?

O anteponi il Piacere al Dovere?

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Forse è proprio quella la fregatura: che da bambinə ci hanno insegnato che prima viene sempre e comunque il dovere.

Talmente tanto che anche quando ‘scegliamo’ ci diciamo che ‘dobbiamo’.

Un esempio? Per due settimane di seguito ho saltato yoga. Non ero contenta.

Mercoledì mi sono svegliata pensando: ‘Ecco, anche oggi devo stare a casa’.

Leonardo era ammalato di nuovo ed ero indietro con il lavoro (nonostante i #sempresanti nonni).

Mi sono guardata allo specchio e ho detto: ‘Io non devo saltare yoga. Io scelgo di saltarlo. Scelgo di lavorare per non trovarmi ad annaspare. Scelgo di passare un’ora con mio figlio che altrimenti non vedrei tutt’oggi’.

E sono stata meglio. Perché non mi sentivo più sotto il giogo dei doveri.

Ma scegliere il piacere, il divertimento appunto, è diventato qualcosa di non banale nella società delle performance.

Non siamo nati per portarci tutto il peso del mondo sulle spalle, e il mondo comunque andrà avanti con o senza il nostro sacrificio.

Possiamo scegliere un lavoro che ci piaccia davvero (che tanto comunque le rotture di palle ci saranno lo stesso).

Possiamo (e abbiamo il diritto di) procrastinare. Non tutto, non sempre. Ma quando ci serve.

Possiamo cazzeggiare, ridere a bocca aperta, ubriacarci di piacere (o di birra), uscire col buio a passeggiare, rompere una regola o un patto.

E tutto questo essendo allo stesso tempo persone valide, che vivono secondo i loro valori, che offrono amore e supporto.

Mi auguro (e vi auguro) di condire la vostra vita di passione, energia pulita e bocche all’insù.

STIAMO SVUOTANDO LA NOSTRA VITA IN CAMBIO DI UN LIKE?

Perché non voglio essere una mamma con un cavalletto in ogni stanza

Io proprio non mi ci vedo con un cavalletto pronto a tenere il mio telefono mentre riprende scene intime della giornata.

O forse è proprio questo il problema: che non sono ‘scene’, è vita vera e voglio che rimanga tale.

Lo so, l’algoritmo dei social è una bestiola poco simpatica, con cui tutti vorrebbero socializzare ma che spesso non si lascia prendere.

Ma la domanda che mi sono posta – e che ho posto anche ad alcune delle persone che lavorano insieme a me – è: a quale prezzo?

Vuoi aumentare i followers.

A quale prezzo?

Vuoi aumentare le views.

A quale prezzo?

Perché come ci insegna quel film denso di saggezza che è “I love shopping”, valore e costo non sempre sono la stessa cosa.

Insomma, un motivo c’è se si chiamano ‘vanity metrics’, ovvero valori numerici volti ad appagare la nostra vanità.

Non voglio entrare nel merito di discorsi come strategie di comunicazione o ripetere per l’ennesima volta che tanti followers o views NON significano tante conversioni, ma semplicemente vorrei rigurgitare una cosa che proprio non mi va giù.

Parlo nello specifico di mamme perché sono una mamma e perché per anni ho condiviso le foto dei miei bambini. Certo, era facile, con una foto di un bimbo ben vestito o paffutello o divertente, i like arrivavano senza problemi.

Che poi io abbia fatto scelte diverse è stata una decisione a lungo ragionata, e non sto assolutamente dicendo che sia l’unica strada. Per altro metto ancora i loro visi nelle stories.

Quello di cui però non mi capacito è la scelta di rendere la propria vita, i propri rapporti familiari, quei momenti che dovrebbero essere vissuti appieno una specie di The Truman Show.

Scene che di reale non hanno davvero nulla, create totalmente per ricevere consensi, a volte con discorsi che stanno semplicemente scimmiottando tematiche importanti.

Oppure momenti intimi modificati e imbellettati per essere giusti per la telecamera.

O ancora, bambini lasciati piangere per poterli riprendere, malattie (perfino in ospedale) che diventano un pretesto per raccogliere consensi.

Tutto diventa spettacolo. Ma a quale prezzo?

Per come è strutturata la nostra mente, coltivare la presenza momento per momento è una sfida già abbastanza difficile. Molte volte ci troviamo a pensare ad altro, tanto che il tempo sembra sempre scivolarci tra le dita.

Ma se viviamo in funzione del raccogliere scene per il nostro pubblico, quanto rimane di sentito e vissuto appieno di quel momento?

E se non ci fosse un mirino a riprenderti, agiresti nello stesso modo? Diresti le stesse cose? Ti truccheresti come a una festa per cambiare il pannolino a tuo figlio?

Sia chiaro che non voglio mettermi al di sopra dei labirinti mentali in cui social ci trascinano, né dare la colpa allo strumento in sé, perché ci sono tanti aspetti positivi e siamo noi a scegliere come utilizzarlo.

Voglio solo lanciare nell’aria uno spunto per chi almeno una volta ha desiderato maggior visibilità, magari senza nemmeno sapere il perché nel concreto.

Vale la pena barattare numeri per tempo?

Perché quello che ci viene richiesto è usare il nostro tempo per costruire la finzione, ma non solo.

Tutte quelle ore in cui invece di giocare per davvero con i nostri figli, di essere connessi mentre diamo loro da mangiare, mentre li mettiamo a letto, mentre insieme stiamo guardando qualcosa di bello… tutte quelle ore in cui almeno metà del nostro cervello era focalizzato sulla resa pro social, non sono forse andate perse da qualche parte?